Lotte Lehmann e il ciclo liederistico, dal palcoscenico alla masterclass

Daniele Palma

Data di pubblicazione su web 31/10/2024

Saggi teatro

.

«Diva and Lieder Specialist»: così, il 27 agosto 1976, il «New York Times» decise di sottotitolare l’obituario di Lotte Lehmann (1888-1976), cantante-attrice tra le più illustri della prima metà del Novecento. Faccenda da redazione, un sottotitolo: se non fosse che a vergare quel coccodrillo, apparso in prima pagina, fu la penna di Alden Rogers Whitman, giornalista apertamente inviso ai maccartisti, che dal 1964 era stato impegnato a rinnovare il genere del necrologio per il principale quotidiano della Grande Mela.[1] E dunque, anche la più piccola traccia in morte non poteva che essere pensata per illuminare i tratti fondamentali del “ricordato”: Lehman fu (genericamente) diva, certo, e interprete di una Marschallin (Der Rosenkavalier) che era riuscita a guadagnarle la copertina del «Time»;[2] ma al contempo, e forse soprattutto, Lehmann fu specialista di un repertorio – quello del Lied tedesco ottocentesco, da Beethoven a Strauss – che s’era conquistato uno spazio forte, autonomo e culturalmente riconosciuto nelle sale statunitensi solo da pochi decenni.[3] 

Le ragioni per l’attribuzione di una siffatta patente di autorevolezza non mancavano.[4] Sulle assi del palco d’opera – prima a Vienna, poi, in età più matura, negli Stati Uniti – Lehmann si era distinta come una delle maggiori interpreti wagneriane e straussiane della sua generazione. Ma, già a partire dalla seconda metà degli anni Dieci, il soprano aveva iniziato a frequentare con crescente interesse il repertorio liederistico. I primi recital arrivarono durante la Grande Guerra, per la compagnia dello Stadttheater di Amburgo.[5] Un contatto “diretto” con la produzione straussiana giunse poi nell’agosto del 1919, allorché la cantante passò tre settimane a Garmisch, presso la dimora del compositore, onde prepararsi nel ruolo della Färberin (Die Frau ohne Schatten) che avrebbe debuttato a Vienna di lì a breve.[6] 

L’interesse per il repertorio venne a piena maturazione dopo il “lancio” internazionale del 1924, con il debutto al Covent Garden nel ruolo della Marschallin, sotto la bacchetta di Bruno Walter. Da lì in avanti, il Festival di Salisburgo divenne la meta preferita di Lehmann per Liederabenden con lo stesso Walter o con Leo Rosenk; ma fu negli Stati Uniti che fiorì una vera e propria carriera specializzata, soprattutto dopo il trasferimento definitivo della cantante a New York nel 1938.[7] A partire dal debutto nazionale a Chicago (il 28 ottobre 1930, come Siegliende in Die Walküre), possiamo contare centodiciassette recite d’opera (di cui solo quarantatré negli USA, e in soli sei ruoli) a fronte di duecentosettantasette recital liederistici. L’addio definitivo alle scene avvenne sei anni dopo l’ultima recita d’opera, e precisamente nel 1951, con un concerto liederistico alla Town Hall di New York assieme al suo accompagnatore preferito, Paul Ulanowsky. 

Se ciò non bastasse, dopo il ritiro Lehmann fu tra i principali promotori della Music Academy of the West a Santa Barbara, in California, ove si era stabilita dal 1943 con Frances Holden.[8] Così, dal 1947 ebbe inizio una lunga attività come docente di “interpretazione vocale”, tanto nelle masterclass annuali a Santa Barbara e alla Wingmore Hall di Londra, quanto in lezioni individuali date presso la sua dimora con vista sul Pacifico. In questo solco, tra il 1945 e il 1971 Lehmann pubblicò due volumi dedicati all’interpretazione di ruoli d’opera[9] e due a quella di Lied o cicli liederistici.[10] Accolti dalla critica come nettare distillato da una delle più importanti prime donne viventi,[11] questi volumi rappresentano un documento di eccezionale rilievo non solo per comprendere il modo in cui Lehmann affrontasse i propri repertori d’elezione, ma anche come intendesse farsene nume tutelare, adattandoli a una precisa visione culturale e pedagogica per meglio trasmetterli alle nuove generazioni di cantanti statunitensi.

In definitiva, il lungo corso delle attività lehmanniane, la loro articolazione temporale attorno e oltre la Seconda guerra mondiale, e le diffrazioni tra molteplici contesti e media fanno del soprano tedesco un caso di grande interesse. In quanto segue, intendo analizzare il suo “fare” in relazione specifica al Lied tedesco, prendendo come esempio paradigmatico due cicli di Robert Schumann particolarmente amati e frequentati da Lehmann: Frauenliebe und Leben Op. 42, che intona otto delle nove liriche dell’omonima raccolta di Adelbert von Chamisso, e Dichterliebe Op. 48, che invece mette in musica una selezione di sedici poemi dal Lyrisches Intermezzo di Heinrich Heine.[12] Inizierò col sondare brevemente i transiti delle idee e consuetudini performative di Lehmann dal palcoscenico alle masterclass, facendo particolare riferimento agli scritti didattici. Dunque, porrò questi transiti in prospettiva, mostrando come alcuni tratti del “fare” del soprano discendessero dalla lezione di Bruno Walter, celeberrimo direttore d’orchestra e “maestro” della cantante in materia di “interpretazione musicale”.

Iniziamo dunque dal palcoscenico. Compulsando la cronologia lehmanniana composta da Gary Hickling,[13] tra il 1929 e il 1951 si possono contare sette esecuzioni di Dichterliebe (di cui una parziale, il 6 marzo 1931 a Monte Carlo) e trenta di Frauenliebe und Leben, di cui sedici su suolo statunitense. La disparità è facilmente giustificabile se si considera che l’Op. 48 consta di ben sedici brani, contro gli otto dell’Op. 42: che sia questa la ragione principale, e non già la destinazione “naturalmente maschile” di Dichterliebe, lo conferma il fatto che Lehmann dedicò un numero non dissimile di concerti a cicli altrettanto corposi, quali ad esempio Winterreise D. 911 di Franz Schubert, per cui contiamo in totale undici performance dal 1940 in avanti. Di contro, l’interesse per Dichterliebe è confermato dal fatto che «Ich grolle nicht», settimo brano del ciclo, risulta tra i Lied individuali più cantati in assoluto da Lehmann, con quarantasette attestazioni (spesso encore)su un totale di centottantacinque presenze schumanniane nei programmi da concerto della cantante.

A fare da contraltare alle performance dal vivo vi sono poi quelle mediatizzate, e in particolare due incisioni discografiche integrali (una per ciclo), realizzate entrambe durante i mesi estivi del 1941 negli studi di registrazione della Columbia, con Walter al pianoforte.[14] A queste, che rappresentano senza dubbio il principale lascito fonografico di Lehmann per Schumann, si possono aggiungere altri estratti di natura commerciale – in particolare, un’incisione di «Ich grolle nicht» del 19 giugno 1930, per la Odeon[15] – oppure performance live o radiofoniche successivamente riversate su disco o altro supporto fisico.[16] 

Con tutte le doverose riserve relative ai meccanismi di costruzione e recezione della performance registrata,[17] questi oggetti mediali consentono un accesso al “fare” di Lehmann: altrove, ho già discusso le caratteristiche vocali del soprano e i principali tratti stilistici della sua interpretazione di Dictherliebe;[18] in questa sede, mi limiterò ad alcune considerazioni di massima. Da un punto di vista squisitamente canoro, Lehmann presenta un equilibrio imperfetto ma efficace tra «stability and instability: we sense warmth (the strong consonant lower harmonics), dependability (the regularly beating vibrato combined with warmth of tone) and yet vulnerability».[19] Queste caratteristiche erano del resto ben presenti ai suoi contemporanei: nel già citato obituario del «New York Times», Whitman riprende alcuni passi di un precedente articolo di Harold C. Schonberg, che il quotidiano aveva pubblicato nel 1962 per il settantacinquesimo compleanno del soprano. Scrive Schonberg, e ribadisce Whitman:

She may not have been one of the great vocal technicians, and she admits as much. Her singing could have moments of effort, moments when her vocal unease was characterized by breathiness. In a curious way, those moments were part of her charm. They suggested to the audience that she was not an inhumanly perfect singing machine; that she, too, was human, with human limitations. Nobody cared about these occasional lapses, as they would have cared with a lesser artist, for at all times the flame of Lehmann’s inspiration burned so strongly that it burned away the imperfections.[20]

Al livello più generale dell’interpretazione, le “umane limitazioni” di Lehmann fanno il paio a una gestione non necessariamente “ortodossa” di alcuni tratti stilistici di prima evidenza, e in particolare della relazione tra andamento agogico e dinamiche: pur rispettando il tracciato compositivo per quanto concerne le articolazioni interne dei Lied, nelle performance mediali tanto di Dictherliebe quanto di Frauenliebe und Leben il soprano dimostra un approccio libero ai modelli di arco fraseologico consuetudinari nel primo Novecento (accelerando in crescendodecelerando in diminuendo).[21] Ovviamente, in ciò Lehmann è sostenuta dal “fare” dell’altro musicista coinvolto nella resa performativa, ovvero Bruno Walter.

Un esempio rappresentativo è «Du Ring and meinem Finger», il quarto Lied di Frauenliebe und Leben, nella già citata incisione Columbia del 24 giugno 1941.[22] Walter aumenta o abbrevia i valori delle note in diversi punti, il che risulta in un forte effetto di displacement sia tra la parte pianistica e la linea vocale, sia tra i tre diversi “strati” che compongono l’accompagnamento: le fondamentali alla mano sinistra anticipano quasi sempre la figura delle crome alla mano destra, mentre il raddoppio melodico della voce, sempre alla destra, tende a seguire quanto fa Lehmann in un dialogo libero e non meccanico.[23] Se ciò permette a Walter di evidenziare l’autonomia dell’accompagnamento, facendo del pianoforte un vero e proprio deuteragonista della voce – secondo un’idea consolidata che in ciò risiedesse il superamento del modello schubertiano da parte di Schumann – l’approccio di Lehmann discende dal principio che sacrificare, o quantomeno contraddire, la direzionalità “standard” di una frase musicale fosse lecito laddove permettesse di meglio evidenziare il contenuto emotivo-drammatico del testo poetico, foss’anche di una sola parola.

A fronte di queste caratteristiche, gli scritti didattici permettono di apprezzare ulteriormente le sottigliezze e sfumature della lettura lehmanniana dei singoli Lieder, fossero essi sciolti o raccolti in un ciclo. Prendiamo il caso di «Im Rhein, im heiligen Strome», sesto brano dei Dichterliebe:l’io poetico si trova nel Duomo di Colonia, al cospetto di un’effigie votiva della Vergine «dipinta su cuoio dorato» («Auf goldenem Leder gemalt»); osservandola, i tratti della sacra figura sembrano mescolarsi con quelli dell’amata, fino a una totale confusione che rispecchia, illuminandolo, il «groviglio dell’esistere» dello stesso io poetico («In meines Lebens Wildnis / Hat’s freundlich hineingestrahlt»). Riporto quasi interamente come Lehmann descrive (o prescrive?) l’interpretazione del brano:

In the first phrases paint the description of the lovely old city of Cologne with a broad line. […] The low position and the desire to sing with a magnificent breadth may be dangerous for you. However, it is not necessary to sing forcefully in order to give strong expression […]. At “Im Dom” your expression changes. Imagine that you have often gone through the cathedral completely under the spell of the consecrated solemnity which embraced you as you felt the presence of God about you. And you are compelled again to stand before the lovely image of the Madonna whose serene beauty stirs your heart always anew. Sing with a soft legato, in a veiled piano as if under a spell. Your eyes looking into the distance, are (in your thoughts) uplifted to this picture. It is the most beautiful which you have ever seen. From out of the confusion which has beset you, you have looked up at it and it has seemed to shine upon you. Sing “in meines Lebens Wildnis Hat’s freundlich hinein gestrahlt” like a prayer of thanksgiving. It is like a miraculous image for you and you tell of it with delight. […] With astonishment you realize that this exalted face of the holy Virgin is like the beautiful face of your beloved. Sing with a smiling melancholy: “Die gleichene der Liebsten genau”. Hold this expression of tender melancholy until you feel the fateful heavy crescendo in the postlude; this is your realization that while your beloved may outwardly resemble the holy picture the likeness is only superficial. With the heavy and increasingly sombre music, you slowly bow your head as if to hide your griefstricken face, overwhelmed by the depths of misery which the image of the holy Virgin, however pure and beautiful, could not lift from your soul.[24] 

In sostanza, il soprano suddivide il Lied in tre momenti distinti per contenuto emotivo: dopo l’iniziale descrizione del Duomo – luogo doppiamente immaginato, dall’io lirico e da quello del performer – all’interprete è richiesto di significare una sorta di “sacro stupore”, e la “tenera melancolia” che l’accompagna, attraverso un insieme di qualità timbriche (il piano “velato”, locuzione che implica un sacrificio non scontato della bellezza vocale a fini espressivi) e azioni corporee (lo sguardo rivolto in alto, il viso che si apre in sorriso). Del tutto erasi dall’incisione discografica, tali gesti sono tuttavia fondamentali, laddove su essi soltanto riposa la caratterizzazione dell’ultima parte del brano, in cui il canto tace e il pianoforte ricapitola le battute iniziali – variandole per concludere sulla tonica di Mi minore, invece che approdare al transitorio La minore su cui principia «Im Dom, da steht ein Bildniss».[25] 

Ciò che più conta di questa azione “silente” è che essa ha una chiara funzione di collegamento tra «Im Rhein» e il successivo «Ich grolle nicht»: il capo che si china per segnalare il passaggio dalla melancolia al dolore e alla miseria anticipa la piena e amara presa di coscienza da parte dell’io poetico di quanto vuota sia la promessa dell’amata.[26] Questa consapevolezza giunge al termine di una sorta di “primo atto” di Dictherliebe: esso si apre con «l’entusiasmo e l’incandescente passione» dell’io protagonista («Im wunderschönen Monat Mai»), che Lehmann suggerisce di rendere senza eccessivo sentimentalismo,[27] e passo passo transcolora nell’idea che esso sia «no longer free from suffering, for [they are] a victim of [their] love even though [they] know that [their] beloved is not worthy of it» – emozioni, queste, per cui il soprano richiede un piano “velato” «as if under a spell of enchantment».[28] 

E arriviamo così dal particolare al generale: gli scritti didattici mostrano chiaramente che, nell’interpretazione dei cicli liederistici (schumanniani, e non), Lehmann sovraimpone al tracciato compositivo e all’ipotesto poetico una drammaturgia di sua ideazione, fatta di precisi gesti vocali e attoriali che non rispondono necessariamente al progetto (o ai progetti) del polo autoriale. Questo “fare” riposa sul principio di fondo che «a cycle is built up upon one central idea. It is determined from beginning to end by the fate of one person».[29] A sua volta, questo principio risulta da un negoziato tra le idee del soprano e quelle di uno dei suoi principali mentori, ovvero il più volte menzionato Bruno Walter. In un articolo pubblicato dal «New York Times» nel 1941, infatti, Lehmann dichiara esplicitamente: «I found in Bruno Walter the confirmation of my conception that the Lied – always within the limits set by the style of Lieder singing – can be a dramatic scene, seized from the purely spiritual and transformed into the pulse beats of reality» (corsivi miei).[30] Per meglio comprendere le idee di Lehmann, è dunque proficuo provare a riallacciare i fili tra queste e il pensiero del direttore in materia di interpretazione musicale. 

È noto che, accanto alle sue multiformi attività di musicista, Walter (1876-1962) partecipò ai coevi dibattiti culturali sulla musica con una serie di pubblicazioni dedicate all’esegesi di specifici capisaldi del repertorio, o alla biografia artistica di figure di rilievo, tra cui il suo mentore Gustav Mahler.[31] Gli sforzi intellettuali del direttore culminarono nella pubblicazione di Von der Musik und vom Musizieren nel 1957 (tradotto in inglese nel 1961), che egli intendeva come sorta di “variazione finale” della sua autobiografia del 1947, Thema und Variationen.[32] In particolare, nello scritto del 1957 trova spazio una teoria dell’interpretazione (non sistematica, né necessariamente prescrittiva) il cui primo principio è che la musica è una attività spirituale legata all’evoluzione dell’umanità, tale per cui essa si è fatta progressivamente arte in ragione della crescente capacità dei compositori di trasformare in musica tutto ciò che è espressione umana. Il “significato” della musica coinciderebbe con questo contenuto espressivo, e riposerebbe sulle leggi intrinseche del “linguaggio dei suoni”, in primis «the striving of the dissonance towards resolution in the consonance».[33] Il rispetto di queste leggi (negate ad esempio dal jazz o dall’atonalità) consente alla musica di accedere a una qualità morale irriducibile, secondo Walter, a forme di degenerazione consumistica.[34] 

Nell’ambito della “musica morale”, il compito dell’interprete sarà quello di trasmettere agli ascoltatori il “contenuto spirituale” di un brano, condensato dal compositore su carta nel tracciato notazionale. Questo processo di trasmissione del significato musicale non è concepito da Walter come una semplice “decodifica”, ma come un lavoro di mediazione tra due distinti impulsi creativi: il primo è quello del compositore, l’io creativo (schöpferisches Ich); il secondo, quello dell’interprete, che Walter definisce come io ri-produttivo (nachschöpferisches Ich). Il talento dell’interprete eccellente «lies exactly in his capacity for assimilating the intentions of another so completely that not only are the demands made by the work no burden to [him], but that he feels them be his own demands».[35] Inoltre, la possibilità di “riprodurre” un’opera d’arte – ovvero, di ripercorrere il processo creativo attraverso quello performativo – è data solo a chi sia «wholly taken up by the work, wholly in line with it, but who, at the same time, conjures up to the full force of his personality – and this includes, of necessity, his delight in his own talent for interpretation».[36] 

A partire dagli anni Quaranta, e poi sempre più in relazione alle sue attività didattiche, Lehmann, rielaborò la lezione di Walter traducendola in una personale visione di cosa dovesse essere un “artista creativo”. Ciò che emerge dai volumi sull’interpretazione d’opera e del Lied, come pure dal già citato articolo del 1941 per il «New York Times», nonché dalle masterclass a Santa Barbara,[37] può essere riassunto in quattro punti principali e tra loro interrelati. In primo luogo, il soprano predica un fermo diniego di qualsiasi forma di imitazione: nello sviluppare la propria interpretazione di un Lied (come di un’aria d’opera), il riferimento alla tradizione o al modello di altri cantanti non deve mai essere pedissequo, né divenire limite invalicabile. A questo principio – la cui origine è evidentemente da rintracciare nelle “pericoli” della fonoriproduzione – fa il paio un’insistenza sul ruolo fondativo del “sentire” personale dell’interprete, che si traduce in un’esaltazione dell’ispirazione del momento, durante l’atto performativo stesso: «There is nothing I hate more than the doctrine that a song must be sung in just one way. Art must be alive and living feeling must spring from the ever changing richness of the heart. […] The singer who in himself is not capable of changing conceptions would certainly be no creative artist».[38] 

Il terzo punto riguarda la preminenza dell’interpretazione sulla perfezione tecnica, ovvero della pregnanza e potenza espressiva sulla mera bellezza timbrico-vocale. Come abbiamo già visto nell’analisi di «Im Rhein», il soprano non manca di suggerire l’impiego di un piano “velato” o di un forte “sussurrato” nel caso di specifiche esigenze espressive; parimenti, per quanto concerne gli archi di frase, Lehmann afferma che «singing should never follow a straight line. It should have a sweeping flow, it should glide in soft rhythmical waves which follow one another harmoniously».[39] Tutte queste idee trovano una sintesi nel quarto punto. Laddove l’interpretazione musicale presume una scrupolosa “ri-produzione” del «fato di una persona»,[40] come indica Walter ciò può avvenire solo se si arriva a una piena assimilazione tra il “sé” del performer e un “altro” che, nel caso del ciclo liederistico, è quello del personaggio (l’io poetico) come doppio delle intenzioni del compositore. Così, per chi voglia affrontare lo studio di un ciclo, è fondamentale «to immerse yourself with your whole being in the figure into which you will transform yourself, to whom you will give life with these songs. You must love this central figure of your cycle, you must be one with it, be happy and sad with it, live and die with it». In poche parole, «in order to illuminate the figure whom you represent, you must explore it psychologically»:[41] questo è in definitiva il compito fondamentale cui è chiamato il performer di un ciclo liederistico (o di un ruolo d’opera) per poter assurgere al rango di “artista creativo” e, così, esercitare una funzione etica sulla e nella società. 

Alla luce di quanto sinora ricostruito, vorrei proporre alcune brevi considerazioni conclusive. Un primo ordine di questioni riguarda la posizione di Lehmann nella storia novecentesca del Lied tedesco. Precedenti indagini – quali quella di Daniel Leech-Wilkinson sul lascito discografico del soprano, o quella di Laura Tunbridge sulle scene liederistiche londinese e newyorkese tra le due guerre – hanno generalmente incluso Lehmann nel novero di quegli interpreti che, negli anni Venti e Trenta, operarono in direzione di un incremento nell’intensità emotivo-espressiva del canto liederistico, prima che la generazione post-bellica dei Dietrich Fischer-Dieskau e delle Elisabeth Schwarzkopf imponesse un’enfasi sulle “profondità psicologiche” del repertorio.[42] Se è innegabile che l’arte di Lehmann presentasse numerosi tratti stilistici in comune, ad esempio, con Elisabeth Schumann (1888-1952) o Elena Gerhardt (1883-1961), alcuni elementi la pongono altrove. Personale è l’insistenza sull’analisi psicologica del personaggio interpretato: sarebbe facile parlare di un anticipo dei tempi, ma ritengo sia più corretto ragionare nei termini dei differenti e mutevoli mezzi espressivi attivati per un fine consimile, nonché rilevare il fatto che, in Lehmann, la prospettiva psicologizzante assurge innanzitutto all’obiettivo di proiettare parti del sé attraverso il proprio canto, in un costante gioco di rispecchiamenti tra persona privata e persona musicale, rispecchiamenti che trovano un perfetto luogo di sintesi nel personaggio interpretato. È quanto ho già notato nel caso della Marschallin lehmanniana: insopportabilmente “borghese” per Strauss e Hofmannsthal ma amata dai pubblici statunitensi, laddove le medesime caratteristiche performative deprecate dagli autori del Rosenkavalier erano invece accolte come «poignantly human» oltreoceano.[43] In ambito liederistico, un perfetto esempio è Frauenliebe und Leben: gli otto brani del ciclo ben si confacevano ad “accomodare” le vicende personali della cantante, intelligentemente rese pubbliche dalla sua agente statunitense Constance Hope. Ad esempio, non è difficile immaginare forme di proiezione del sé – e in particolare, l’improvvisa perdita del marito Otto Krause nel 1939[44] – attraverso l’ultimo brano («Nun hast du mir den ersten Schmerz getan»): 

The husband has died. The wife deprived of the greatest blessing of life complains at his leaving her so cruelly. He has given her the first great pain of her life, a pain which has pierced the center of her being. […] The postlude of the cycle is a repetition of the first song: her love remains unchanged – the image of her beloved husband is still the center of her thoughts and dreams, as it was from the beginning.[45] 

Poco importa che alcuni definiscano il ciclo «old fashioned»: esso rimane un «eternal masterpiece, which [has] nothing to do with modern sophistication».[46] 

E arriviamo, così, a un’ultima riflessione, le cui parole chiave potrebbero essere “oltreoceano” e “tradizione”. Mi pare evidente (e sarebbe sorprendente il contrario) che gli obiettivi di Lehmann non siano estranei alla tradizione culturale del Lied tedesco, e in particolare allo slittamento concettuale da morceaux a opus che la storiografia individua giustappunto nella produzione di Schumann – a seguito del superamento del “frammentismo” del cosiddetto “decennio pianistico”,[47] nonché per il tramite della moglie Clara e del baritono Julius Stockhausen.[48] Il filtro del pensiero di Bruno Walter non modifica i valori in gioco, ma li aggiorna: la sua teoria dell’interpretazione musicale appare come uno sforzo novecentesco di preservare quell’ideale tutto tedesco di Bildung che, da Schiller in avanti, implicava un processo di formazione del sé per via di contatti intensi e continuativi con filosofia, storia, letteratura e opere d’arte.[49] I tratti apertamente anti-modernisti degli scritti di Walter – che vanno ulteriormente letti alla luce delle influenze che gli arrivavano dalla Teosofia di Helena Blavatsky e dall’Antroposofia di Rudolf Steiner – sono indice di un tentativo di ripristinare quell’identità di “musicista tedesco” ch’egli, impotente, aveva vista calpestata dal Nazismo.[50] Il pensiero di Lehmann sull’“artista creativo” e sull’arte del canto liederistico si innestava in questo solco e – punto fondamentale – cercava di adattare una visione di impianto squisitamente europeo alle necessità di un contesto culturale “altro” quale quello statunitense. 

In definitiva, ritengo che la causa profonda del “fare” di Lehmann risieda in un rapporto produttivo tra proiezioni affettive del sé (e del proprio ruolo culturale) e più ampi meccanismi di trasmissione transculturale del sapere musicale. A differenza di Walter, Lehmann non aveva origini ebraiche, e dunque non patì forme altrettanto severe di privazione identitaria – la cittadinanza statunitense, desiderata sin dalla fine degli anni Trenta, giunse il 13 giugno 1945. Più di Walter, Schumann, Gerhardt e altri, poi, il soprano operò quasi esclusivamente negli Stati Uniti per oltre due decenni dopo il termine della Seconda guerra mondiale, entrando in contatto con le nuove generazioni e con differenti ideali pedagogici, ideologie culturali, e modi di funzionamento dei mercati artistici. Ne nacquero interferenze tra due articolazioni possibili del concetto di “tradizione”: da un lato, quello con la maiuscola, ossia quello del repertorio (Lied o opera tedesca che fossero) percepito come patrimonio da salvaguardare, tantopiù dopo il limite cronologico e psicologico della guerra; dall’altro, il livello delle tradizioni performative, ovvero delle consuetudini e tratti stilistici, vocali, finanche prossemici che il soprano associava ai suoi repertori d’elezione, e che potevano essere preservati solo attraverso forme di “ri-attivazione”. Da ciò risultano alcune necessarie contraddizioni, una su tutte quella evidentissima tra il diniego dell’imitazione (e l’insistenza sullo “spur of the moment”) e la fissazione scritta di tratti performativi ritenuti imprescindibili – e ulteriormente trasmessi in contesti che implicavano un ruolo prescrittivo di Lehmann. Risultano pure, però, alcuni fenomeni culturali che offrono uno spaccato di come il Novecento abbia riconcettualizzato le musiche eurocolte ottocentesche, inserendole in una precisa tassonomia dei generi e facendone un patrimonio. Il caso di Lehmann, insomma, apre uno squarcio su terreno di ricerca ampio e affascinante, ancora in buona parte da esplorare per comprendere come e perché, oggi, noi pensiamo e agiamo le nostre musiche. 


[1]  Cfr. A. WHITMAN, Lotte Lehmann Dies at 88; Diva and Lieder Specialist, in «The New York Times», 27 agosto 1976, pp. 1, 33.

[2]  Cfr. la prima di copertina in «Time: The Weekly Newsmagazine», XXV, 1935, 7. L’interpretazione lehmanniana della Marschallin nel Rosenkavalier di Richard Strauss e Hugo von Hoffmansthal, nonché le ragioni del suo successo nel contesto statunitense sono stati oggetto di ampia disamina in D. PALMA, «Alles zergeht, wie Dunst und Traum». Lotte Lehmann interprete della Marschallin, in «Rivista Italiana di Musicologia», LIV, 2019, pp. 59-89.

[3]  In anni recenti, le complesse vicende della recezione statunitense del Lied tedesco sono state oggetto di numerosi studi. Per i transiti e le “appropriazioni” ottocentesche, che vertevano sulla traduzione in lingua inglese dei testi poetici, cfr. A.W. HADAMER, Mimetischer Zauber. Die englischsprachige Rezeption deutscher Lieder in den USA 1830-1880, Münster-New York, Waxmann, 2008. Circa gli anni tra le due Guerre, fondamentali perché vi si consolidò l’uso “moderno” di dare Liederabenden in lingua originale, cfr. L. TUNBRIDGE, Frieda Hempel and the Historical Imagination, in «Journal of the American Musicological Society», LXVI, 2013, 2, pp. 437-474; ID., Singing in the Age of Anxiety: Lieder Performances in New York and London between the World Wars, Chicago-Londra, The University of Chicago Press, 2018. Più recente, e aperto agli apporti imprescindibili di performer autoctoni quali David Bispham, è poi H. PLATT, Lieder in America: On Stages and in Parlors, Champaign (IL), The University of Illinois Press, 2023. 

[4]  Qui mi limito a fornire alcune coordinate fondamentali. Non mancano del resto biografie della cantante, tra le quali segnalo la più recente e scientificamente solida: M. KATER, Never Sang for Hitler: The Life and Times of Lotte Lehmann, Cambridge, Cambridge University Press, 2008.

[5]  Lehmann vi cantò dal 1910 al 1916. Oltre ai primi successi operistici nei ruoli di Agate (Der Freischutz) e soprattutto Elsa (Lohengrin), in quegli anni si contano dodici recital, di cui otto interamente dedicati a Lieder. I dati sono desunti dalla meritoria e imponente opera di raccolta documentaria di Gary Hickling, confluita nel sito web della Lotte Lehammn Foundation da lui creata nel 1990 (https://lottelehmannleague.org) e, più di recente, in un ebook online: cfr. G. HICKLING, Lotte Lehmann and Her Legacy. Vol IX: Documents. Chapter 14: Chronology, 2020, https://lottelehmannleague.org/2022/chapter-14-chronology/ (ultimo accesso: 25 ottobre 2024).

[6]  Lehmann stessa riferisce di aver preso parte a Liederabenden domestici per lo svago di Pauline, mercuriale moglie di Strauss: cfr. L. LEHMANN, Five Operas and Richard Strauss, New York, Macmillan, 1964, pp. 26-31.

[7]  Le ragioni del trasferimento restano controverse: la vulgata diffusa da Lehmann stessa in un articolo del 1966 la vede protagonista di dissapori con Hermann Göring in seguito a un incontro berlinese nel 1934, che le sarebbero costati il bando dai palcoscenici tedeschi per volere di Hitler stesso: cfr. L. LEHMANN, Göring, the Lioness and I, in Opera 66, a cura di C. OSBORNE, Londra, Alan Ross, 1966, pp. 187-199. Sulla scorta di più accurate indagini documentarie, Michael Kater ha mostrato motivazioni prevalentemente commerciali e carrieristiche: cfr. KATER, Never Sang for Hitler, cit., pp. 153-166.  

[8]  Holden era una docente universitaria di psicologia, messasi in aspettativa per sostenere Lehmann dopo la prematura perdita del di lei marito Otto Krause, nel 1939, e diventata poi sua compagna per i successivi trentasei anni, oltreché traduttrice dei suoi lavori. Sul rapporto tra le due donne tutti i biografi tendono a glissare, e non è possibile escludere che esso si configurasse secondo forme di omosocialità dal sapore quasi ottocentesco.

[9]  Cfr. L. LEHMANN, My Many Lives, New York, Boosey & Hawkes, 1948 (rist. Westport, Greenwood Press, 1974); ID., Singing with Richard Strauss, Londra, H. Hamilton, 1964; Five Operas and Richard Strauss nella versione statunitense (New York, MacMillan, 1964).

[10]  Cfr. L. LEHMANN, More than Singing: The Interpretation of Songs, New York, Boosey & Hawkes, 1945 (rist. Westport, Greenwood Press, 1975); ID., Eighteen Song Cycles: Studies in Their Interpretation, London, Cassell & Co. Ltd., 1971.

[11]  Per uno spaccato della recezione degli scritti “didattici” lehmanniani in area anglofona, cfr. C. FÜRSTNER, Review: More than Singing, in «Notes », III, 1945, 1, pp. 44-45; P.L. MILLER, Review: My Many Lives, in «Notes », V, 1948, 3, pp. 373-374; W. MANN, Strauss Soprano: Lotte Lehmann’s Singing with Richard Strauss, in «The Musical Times», CVI, 1965, 1463, pp. 33-34; E. SAMS, The Gushing Brook: Eighteen Song Cycles, in «The Musical Times», CXII, 1971, 1545, p. 1072; A.D., Review: Eighteen Song Cycles, in «Music & Letters», V, 1972, 2, pp. 217-219; T. GRUBB, Review: Eighteen Song Cycles, in «Notes», V, 1974, 4, pp. 783-785.

[12]  Entrambi i cicli furono composti e pubblicati nel 1840, il cosiddetto “Liederjahr” del compositore. Sempre al 1840 risalgono altri due dei cicli liederistici schumanniani, ovvero i due Liederkreis Op. 24 (ancora su liriche di Heine) e Op. 39 (su testi di Joseph von Eichendorff). Lehmann li ignorò quasi del tutto nella sua carriera concertistica, salvo includere un esame dell’Op. 39 nel secondo volume “didattico” sulla liederistica: cfr. LEHMANN, Eighteen Song Cycles, cit., pp. 103-110. 

[13]  Cfr. https://lottelehmannleague.org/2022/chapter-14-chronology/, corrispondente al quattordicesimo capitolo di HICKLING, Lotte Lehmann and Her Legacy, cit. (ultimo accesso: 25 ottobre 2024).

[14]  Abbiamo, in ordine di incisione: Frauenliebe und Leben, matrici nn. CO31508-CO31515, incise a New York il 24 giugno 1941, numeri di catalogo della prima edizione (in 4 dischi a 78 giri da 10 pollici) 17362D-17365D; Dichterliebe, mat. nn. CO [10 pollici] o XCO [12 pollici] 31377-31384, incise a New York il 13 agosto 1941, numeri di catalogo della prima edizione (in 4 dischi a 78 giri da 10 o 12 pollici) 17740D / 17741D / 72077D / 72078D. I dati sono ripresi dal database online della Discography of American Historical Recordings (DAHR): https://adp.library.ucsb.edu/index.php/mastertalent/detail/102088/Lehmann_Lotte?Matrix_page=100000). Entrambe le incisioni sono state poi riversate (singolarmente, o assieme) in edizioni su nastro magnetico, LP e, più di recente, CD: cfr. la Discografia offerta dal portale della Lotte Lehmann League, https://lottelehmannleague.org/2022/chapter-12-discography/. Per praticità (e con i caveat di rigore circa la qualità di questi artefatti), il lettore potrà ascoltare le due incisioni integrali Columbia su YouTube, rispettivamente agli indirizzi https://www.youtube.com/watch?v=zRl-DS1DVfY (Dichterliebe) e https://www.youtube.com/watch?v=g6z-d_G7HKE (Frauenliebe und Leben) (ultimo accesso: 25 ottobre 2024).      

[15]  Mat. n. Be9044, incisa il 19 giugno 1930 a Berlino, con un trio strumentale della Staatsoper diretto da Frieder Weissmann, cat. nn. O4825a (Odeon) e G4092m (Columbia). Una copia digitale dell’incisione è messa a disposizione dal DAHR, all’indirizzo: https://adp.library.ucsb.edu/index.php/matrix/detail/2000392063/Be9044-Ich_grolle_nicht (ultimo accesso: 25 ottobre 2024).  

[16]  Mi riferisco ad esempio a un ciclo di trasmissioni radiofoniche mandate in onda dalla Columbia tra il 3 ottobre e il 24 dicembre 1941, con Paul Ulanowski al pianoforte, con Lehmann che spiegava al pubblico ciascun Lied prima di cantarlo. Rimando il lettore a un riversamento CD della Archipel, nella serie “Desert Island” (Lotte Lehmann: The Complete Radio Recital Cycle 1941, cat. n. ARPCD 0155-2), e a una più agevole presenta YouTube di «Ich grolle nicht», tratta dal medesimo CD: https://www.youtube.com/watch?v=WZr50h3FifM (ultimo accesso: 25 ottobre 2024).

[17]  Gli statuti documentali degli artefatti mediali della performance, nonché i rapporti con le pratiche che essi “rappresenterebbero” sono problemi di lungo corso (e potenzialmente inesauribili) negli studi di settore. Rimando il lettore almeno a N. COOK, Beyond the Score: Music as Performance, New York, Oxford University Press, 2013, pp. 337-373; Registrare la performance. Testi, modelli, simulacri tra memoria e immaginazione, a cura di M. GARDA e E. ROCCONI, Pavia, Pavia University Press, 2016; A. STANOVIĆ, Trust in Early Recordings: Documents, Performances and Works, in Early Sound Recordings: Academic Research and Practice, a cura di E. MOREDA RODRIGUEZ e I. STANOVIĆ, Londra, Routledge, 2023,pp. 248-266; D. PALMA, Recording voices. Archeologia fonografica dell’opera (1887-1948), Lucca, LIM, 2024, pp. 147-162.

[18]  Cfr. D. PALMA, The Fine Art of Lieder Singer: Lotte Lehmann Recordings of Schumann’s “Dichterliebe”, in «Post-Ip. Revista do Fórum Internacional de Estudos em Música e Dança», IV, 2019, pp. 58-69.

[19]  D. LEECH-WILKINSON, The Changing Sound of Music: Approaches to Studying Recorded Musical Performance, Londra, CHARM, 2009, capitolo n. 4, paragrafo n. 25, https://charm.rhul.ac.uk/studies/chapters/chap4.html#par25 (ultimo accesso: 25 ottobre 2024).

[20]  H.C. SCHONBERG, LADY OF SONG: Lotte Lehmann’s 75th Birthday Evokes Fond Memories of a Long Career, «The New York Times», 4 novembre 1962, p. 11. Cit. in WHITMAN, Lotte Lehmann Dies at 88, cit., p. 33.

[21]  Cfr. almeno N. TODD, A Model of Expressive Timing in Tonal Music, «Music Perception», III, 1985, 1, pp. 33-57; ID., The Dynamics of Dynamics: A Model of Musical Expression, in «Journal of the Acoustical Society of America», XCI, 1992, pp. 3540-50. Parliamo ovviamente di “consuetudini”, e non già di “regole”; purtuttavia, il deviarne non passava inosservato, e poteva rappresentare un tratto di riconoscibilità.

[22]  Mat. n. CO31511, cat. n. 17363-D; cfr. supra,nota 14.

[23]  Aggiungo che i tre diversi “strati” di cui si si compone l’accompagnamento pianistico sono resi con altrettante diverse dinamiche e qualità timbriche: la figura delle crome è preposta a “portare in avanti” il discorso musicale, mentre il basso (con le fondamentali dell’intelaiatura armonica) e il raddoppio della linea vocale deviano da questo percorso. Su ciò riposa il tentativo (riuscito) di evitare forme di staticità o meccanicità, potenzialmente intrinseche al decorso quasi “da basso albertino” dello strato intermedio (ovvero, quello delle crome).

[24]  LEHMANN, More than Singing, cit., p. 144. Il medesimo testo appare con pochissime variazioni in LEHMANN, Eighteen Song Cycles, cit., pp. 81-82.

[25]  Mi permetto di rimandare il lettore ancora a PALMA, The Fine Art of Lieder Singer, cit., pp. 64-65: vi proponevo un parallelismo tra l’interpretazione lehmanniana di «Im Rhein» e un monologo della celebre attrice e drammaturga statunitense Ruth Draper (1884-1956) – precisamente, An Italian Paesant Woman, sesta scena della pièce intitolata In a Church in Italy (ora in R. DRAPER, The Art of Ruth Draper: Her Dramas and Characters, London, Oxford University Press, 1960, p. 295), che il soprano dimostra di conoscere bene (cfr. LEHMANN, My Many Lives, cit. pp. 170-171). Quanto Draper fa fare al suo personaggio davanti a un quadro della Madonna, in totale silenzio, richiama le azioni descritte da Lehmann per il Lied di Schumann, rappresentando così un possibile referente nei processi di costruzione di senso del soprano.     

[26]  Così recita il diciottesimo poema di Heine, che in Dichterliebe Schumann intona, appunto, in settima posizione: «Ich sah dich ja im Traume, / Und sah die Nacht in deines Herzens Räume, / Und sah die Schlang’, die dir am Herzen frisst, / Ich sah, mein Lieb, wie sehr du elend bist» («Ti ho veduta in sogno, / e ho veduto la notte nel tuo cuore vuoto, / e ho veduto la serpe, che ti rode il cuore, / ho veduto, amore mio, come sei infelice»).

[27]  Cfr. LEHMANN, More than Singing, cit., p. 141.

[28]  Ivi, p. 143.

[29]  La citazione proviene da un dattiloscritto sinora inedito, ora pubblicato in G. HICKLING, Lotte Lehmann and Her Legacy. Vol IX: Documents. Chapter 1: Song Suggestion, 2020, pp. 84-85: 84, https://lottelehmannleague.org/2022/chapter-1-song-instructions/ (ultimo accesso: 25 ottobre 2024).

[30]  L. LEHMANN, The Fine Art of Lieder Singing: A Distinguished Exponent Discusses Some of Requirements, in «The New York Times», 23 marzo 1941, p. 7.

[31]  In particolare, Mahler assunse un diciottenne Walter come suo assistente dapprima allo Stadttheater di Amburgo (1894-1896), dunque alla Hofoper di Vienna, dove questi debuttò nel 1901 con Aida e rimase sino al 1912 (cfr. H.-L. DE LA GRANGE, Gustav Mahler, II.Vienna: The Years of Challenge. 1897-1904. Oxford, Oxford University Press, 1995, pp. 379-380). I successivi traguardi includono un incarico decennale come Generalmusikdirektor a Monaco di Baviera, e una presenza alla Städtische Oper di Berlino sotto la supervisione di Hans Tjetien. Dal 1924 al 1931, Walter fu direttore principale della stagione tedesca organizzata dal colonnello Eustache Blois al Covent Garden di Londra (cfr. H. ROSENTHAL, Opera at Covent Garden: A short History, London, Gollancz, 1967, pp. 108-116). Nel frattempo, dal 1925 iniziò la sua collaborazione con il Festival di Salisburgo, sia come direttore d’orchestra sia come pianista accompagnatore per Liederabenden. Dopo l’Anschluss, le origini ebraiche imposero a Walter di emigrare negli Stati Uniti, dove continuò la sua carriera a New York e Los Angeles fino alla morte.

[32]  Cfr. B. WALTER, Thema und Variationen. Erinnerungen und Gedanken, Frankfurt a. M., S. Fischer, 1947; ID., Of Music and Music Making, trad. inglese di P. HAMBURGER, London, Faber & Faber, 1961 (ed. or. Von der Musik und vom Musizieren, Ulm, Fischer, 1957). Circa quest’ultimo scritto, per le citazioni farò riferimento alla versione in inglese, del resto approvata da Walter.

[33]  WALTER, Of Music and Music Making, cit., p. 19.

[34]  Sono convinzioni di lungo corso, che risultano già pienamente delineate nel precedente B. WALTER, Von den moralischen Kräften der Musik, Vienna, Herbert Reichner Verlag, 1935. Non manca, qui, qualche eco di riflessioni che porteranno alle ben più note teorie di Walter Benjamin sull’aura – sebbene per altre vie e con tutt’altro potenziale epistemologico.   

[35]  WALTER, Of Music and Music Making, cit., p. 34.

[36]  Ivi, p. 23. L’impiego del termine “riproduzione” (Reproduktion) per “interpretazione” non è un unicum in Walter, bensì compare nelle ben più note teorie di Adorno: cfr. T.W. ADORNO, Zu einer Theorie der musikalischen Reproduktion, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 2001 (trad. inglese: Towards a Theory of Musical Reproduction, Malden, Polity Press, 2005). Com’è immaginabile, altrettanto diffusa è l’idea che l’interprete sia una sorta di “doppio” del compositore: cfr. ad es. R. LEIBOWITZ, Le compositeur et son double. Essai sur l’interpetation musicale, Paris, Gallimard, 1971. Per una panoramica su questi temi, rimando almeno a Werk-Welten. Perspektiven der Interpretationsgeschichte, a cura di A. BALLSTAEDT e H.J. HINRICHSEN, Schingen, Argus, 2008; G. BORIO, La teoria dell’interpretazione musicale da Adolf Bernhard Marx a Rudolf Kolisch, in Arturo Toscanini e la direzione d’orchestra del suo tempo, a cura di M. CAPRA e I. CAVALLINI, Lucca, LIM, 2011, pp. 45-59.

[37]  Mi riferisco in particolare alle masterclass del giugno 1961, riprese per conto della National Educational Television e trasmesse in televisione su Channel 13 nel dicembre 1962. Questi e altri materiali sono ora trascritti in K.H. BROWN, Lotte Lehmann in America: Her Legacy as Artist Teacher, Missoula, The College Music Society, 2012, pp. 103-244 (in particol. pp. 197-215 per Dichterliebe e pp. 215-217 per Frauenliebe un Leben).    

[38]  LEHMANN, The Fine Art of Lieder Singing, cit.

[39]  LEHMANN, Eighteen Song Cycles, cit., p. 5.

[40]  Cfr. supra, nota 29.

[41]  Entrambe le citazioni da LEHMANN, Eighteen Song Cycles, cit., p. 8.

[42]  Cfr. D. LEECH-WILKINSON, Musicology and Performance, in Music’s Intellectual History, a cura di Z. BLAZCKOVIC e B. DOBBS MACKENZIE, New York, RILM, 2009, pp. 791-803: 801; TUNBRIDGE, Singing in the Age of Anxiety, cit., pp. 139-144 e 165-168.

[43]  Cfr. E. DOWNER, Brilliant Audience Applauds Lotte Lehmann in Strauss’ “Rosenkavalier”, in «Boston Evening Transcript», 28 marzo 1940, p. 10: «There are Marschallins who are more consciously aristocratic […] but none more poignantly human. Last night Mme. Lehmann lived her par as no one else on the stage». Cfr. inoltre PALMA, «Alles zergeht, wie Dunst und Traum», cit., pp. 82-86. Per il concetto di persona musicale, rimando ai notissimi P. AUSLANDER, Musical Personae, «Drama Review», I, 2006, 1, pp. 100-119; ID., ‘Musical Personae’ Revisited, in Investigating Musical Performance: Theoretical Models and Intersections, a cura di G. BORIO et al., Routledge, London-New York, 2020, pp. 41-55.

[44]  Cfr. supra, nota 8.

[45]  Cito ancora una volta dal dattiloscritto di cui alla nota 29, ora in HICKLING, Lotte Lehmann and Her Legacy. Vol IX, Chapter 1,cit., p. 85.

[46]  Ibid.

[47]  Cfr. almeno A. ROSTAGNO, Kreisleriana di Robert Schumann, Roma, NeoClassica, 2016, in partic. pp. 9-20; N.J. MARTIN, Schumann’s Fragment, in «Indiana Theory Review», XXVIII, 2010, 1-2, pp. 85-109.

[48]  Cfr. N. LOGES, From Miscellanies to Musical Works: Julius Stockhausen, Clara Schumann, and “Dichterliebe”, in German Song Onstage: Lieder Performance in the Nineteenth and Early Twentieth Centuries, a cura di N. LOGES e L. TUNBRIDGE, Bloomington, Indiana University Press, 2020, pp. 70-86.

[49]  Cfr. R. WATTENBARGER, “A Very German Process”: The Contexts of Adorno’s Strauss Critique, in «19th-Century Music», XXV, 2001, 2-3, pp. 313-336.

[50]  Cfr. E. RYDING-R. PACHEFSKY, Bruno Walter: A World Elsewhere, New Haven-London, Yale University Press, 2001, pp. 219-228.